«Dite a mio padre che ho avuto coraggio e non rimpiango nulla»
«Dite a mio padre che ho avuto coraggio e non rimpiango nulla»
Vittoria Nenni, affettuosamente chiamata Vivà, è la figlia terzogenita di Pietro Nenni. Nasce il 31 ottobre 1915, ad Ancona, mentre suo padre combatte al fronte della Grande Guerra, nel corso dell’offensiva delle truppe italiane per conquistare Gorizia.
È a questo che è ispirato il suo nome completo: Vittoria Gorizia.
“Il bel nome – avrebbe poi amaramente commentato in seguito Nenni nelle sue pagine del diario – non le ha portato fortuna”.
Nonostante le ristrettezze economiche, l’infanzia di Vittoria trascorre serenamente con l’affetto della famiglia, accanto alle sorelle più grandi Giuliana (nata nel 1909) ed Eva (nata nel 1913). Nel 1921 nascerà anche l’ultima delle sorelle, Luciana.
L’infanzia di Vivà è, però, da subito segnata dal clima di odio e dalla violenza fascista. Il primo incontro diretto con i fascisti, nel 1926, è traumatico: una squadraccia devasta l’appartamento in cui vive la sua famiglia. Distruggono mobili, libri, giochi. Uno di loro la minaccia apertamente: “Faremo fare a tuo padre la stessa fine di Matteotti!”. Vittoria ha solo 11 anni.
Pietro Nenni decide di intraprendere la via dell’esilio: si rifugia in Francia, dove, qualche tempo dopo, sarà raggiunto da tutta la famiglia.
La Francia si dimostra accogliente e per la famiglia Nenni comincia una nuova vita. Gli inizi sono difficili: ai problemi di ambientamento, si aggiungono le difficoltà economiche. Ben presto, tuttavia, le cose cambieranno in meglio e Vittoria e le sue sorelle riusciranno a vivere un’adolescenza serena. Pietro Nenni, nel frattempo, si affermerà tra i leader più noti dell’antifascismo italiano, oltre che come giornalista. Diverrà presto molto noto in tutta Europa. Vittoria si interessa poco alla politica, ma viene assorbita dall’atmosfera progressista francese, dove le donne, a differenza dell’Italia fascista, possono iscriversi all’università, viaggiare, fare sport.
In Francia, Vivà trova anche l’amore: nel 1936, dopo alcuni anni di fidanzamento, sposa Henri Dabeuf, un giovane francese non molto addentro alle questioni politiche, ma con simpatie verso i partiti conservatori della destra francese. Insieme viaggiano, si divertono e aprono a Nancy, un magazzino.
Intanto, il fascismo e il nazismo si affermano sempre più in Europa: nel 1939 scoppia la Seconda Guerra Mondiale, dopo l’invasione tedesca della Cecoslovacchia. Da quel momento, il mondo non sarà più lo stesso. Anche la Francia si prepara al conflitto con la Germania nazista. Vittoria e Henry lasciano Nancy e rientrano a Parigi. Henri ha trovato un piccolo impiego, ma viene presto richiamato alle armi. Vivà, intanto, lavora come contabile in un grande magazzino. Con l’avanzata delle truppe naziste in Francia e l’occupazione di Parigi, la famiglia Nenni è costretta a lasciare la capitale francese. Con un viaggio rocambolesco e a tratti drammatico, raggiunge i Pirenei nella zona libera francese.
Vittoria non ha notizie del marito da qualche mese, ma un pomeriggio, lo incontra per caso a Palada, in un gruppo di avieri. Il destino li ha riuniti.
Di lì a poco, nel luglio 1940, Vittoria e Henry decidono di rientrare a Parigi e di riaprire la tipografia che Nenni aveva acquistato l’anno prima. Intanto nella capitale francese la resistenza si riorganizza clandestinamente. Iniziano a circolare giornaletti e volantini che condannano il collaborazionismo francese e inneggiano alla lotta contro il nazismo. Alcune amiche di Vittoria si impegnano direttamente come staffette e Vittoria convince il marito a mettere la tipografia a disposizione degli stampatori antinazisti. Da quel momento la terzogenita di Pietro Nenni – a sua volta impegnato intensamente nel ricostruire le fila dell’antifascismo – si getta a capofitto nella resistenza francese e insieme alle altre donne della rete, trasportano messaggi, proteggono ribelli, distribuiscono materiale di propaganda.
La polizia francese mette in piedi una Brigata speciale per debellare la rete antifascista, servendosi di spie e delatori. Nella retata del 17 giugno 1942, Henri viene arrestato: nella tipografia erano stati ritrovati molti frammenti di manifesti clandestini. L’abitazione viene perquisita ma Vittoria non viene arrestata. Potrebbe scappare, come suggerito da alcune amiche, ma non vuole abbandonare il marito, con in più il senso di colpa di averlo trascinato in quell’avventura. Si reca in carcere ogni giorno, per portare a Henri cibo e vestiti. Il 23 giugno riesce ad avere un colloquio con lui, ma quando sta per andare via dal carcere viene informata di non essere più libera di andarsene. Inizia la prigionia di Vivà.
Sia Henri che Vittoria vengono sottoposti a pesanti interrogatori. Il 10 agosto vengono trasferiti nel carcere di Romainville. Per Henri, che aveva già subito pesanti torture, l’esperienza a Romainville dura pochissimo: viene fucilato per rappresaglia su Mont Saint Valerien insieme ad altri 94 prigionieri. Intanto, la famiglia Nenni si mobilita per cercare di liberare Vittoria.
In carcere, la vita per Vittoria è molto dura, ma il suo temperamento coraggioso la sostiene e la aiuta ad affrontare la situazione. Stringe una profonda amicizia con diverse donne, tra cui Charlotte Delbo. A Vittoria è offerta la possibilità di scontare la pena in un carcere italiano, rinunciando alla cittadinanza francese e facendo valere la sua nazionalità italiana. Lei, però, rifiuta.
Il 21 gennaio 1943 Vittoria riceve la visita della sorella Eva ed è da lei che saprà della morte di Henri. Vittoria si raccomanda alla sorella di riferire al padre di non temere nulla e che supererà la dura prova. Sarà quello l’ultimo contatto con la famiglia.
Il mattino del 24 gennaio 1943 le donne detenute a Romainville vengono fatte salire su quattro carri bestiame, il convoglio 31.000. Alcune donne scrivono su un biglietto parole rivolte ai familiari. Vittoria scrive:
«Immenso è il mio dolore nel lasciarvi. ..proibisci alla mamma di piangere! Nous nous reverrons, ci rivedremo!».
Dopo un viaggio terrificante, il 27 gennaio 1943 il convoglio raggiunge il campo di sterminio di Auschwitz. Vittoria ha l’impressione fisica di essere entrata in una tomba. Con un filo di voce confessa alle compagne il suo timore: «Non usciremo più».
Anche lei subisce i trattamenti nazisti: le verranno rasati i capelli; sul braccio le verrà impresso il numero 31635. Sulle giacche a righe grigie e nere, piene di pidocchi, sono obbligate a cucirsi i numeri di matricola, una F – che sta per francese – e un triangolo rosso che indica lo status di prigioniere politiche antitedesche. Le condizioni igieniche e di vita sono terribili: l’appello la mattina nel gelo miete vittime, il lavoro nei campi acquitrinosi è sovrumano, il cibo è insufficiente e la carenza d’acqua diventa un’ossessione per tutte. In breve tempo più della metà delle donne arrivate con il convoglio 31000 muore. Vittoria sembra resistere bene e diventa un punto di riferimento importantissimo per le sue compagne, che rimangono impressionate dalla sua forza d’animo e dal suo coraggio. Charlotte Delbo si ammala di tifo e viene curata amorevolemente proprio da Vittoria.
Nella primavera del 1943 si apre una speranza: Vittoria e le sue amiche vengono arruolate per lavorare in una fabbrica di produzione di gomma. Il lavoro all’interno è una concreta possibilità di salvezza: le condizioni sono migliori. Mentre si appresta a partire, Vittoria si ammala di tifo. Le amiche, prima tra tutte Charlotte Delbo, cercano in tutti i modi di aiutarla ma, purtroppo, le condizioni di salute di Vivà peggioreranno di giorno in giorno, fino al 15 luglio 1943. Vittoria è in punto di morte, divorata dalla malattia. Affida a una compagna un ultimo messaggio. È per il suo papà.
«Dite a mio padre che ho avuto coraggio fino all’ultimo e che non rimpiango nulla.»
Dopo quasi due anni di estenuanti ricerche, Pietro Nenni impegnato nella ricostruzione del Paese, riceve da De Gasperi la terribile notizia della morte di sua figlia. È il 30 maggio 1945. I giornali rendono omaggio alla morte di Vittoria e da ogni parte d’Italia arrivano a Nenni lettere e telegrammi. La lettera che più colpisce Nenni è quella di Benedetto Croce:
«Mi consenta di unirmi anch’io a Lei in questo momento altamente doloroso che Ella sorpasserà ma come si sorpassano le tragedie della nostra vita: col chiuderle nel cuore e accettarle, perpetue compagne, parti inseparabili della nostra anima.»
A Parigi, nell’agosto 1945, Nenni incontra Charlotte Delbo, una delle sopravvissute del convoglio 31.000. I dettagli del racconto sono strazianti. Nenni si chiede se poteva fare di più per salvarla, magari contattando Mussolini. Scrive quel giorno su un foglietto:
«Se avessi telegrafato a Mussolini sono sicuro che l’avrei salvata. Ho avuto la tentazione due o tre volte al cappellano del carcere di Bressanone. Ma non potevo. Mi pareva di compiere un atto di viltà. Mi sono detto, lo farò a Roma, ma a Roma sono stato preso dall’atmosfera eroica della resistenza e allora naturalmente ogni idea del genere è caduta. Non so chiedermi se ho avuto ragione o torto. Ma sento che non mi libererò mai da questo pensiero terribile: forse, o quasi certamente, avresti potuto salvare tua figlia dall’orrore di Auschwitz. Ed è l’orgoglio che te lo ha impedito.»
Nell’agosto del 1947, Nenni e la moglie Carmen visitano Auschwitz. È un’esperienza traumatica. Negli anni successivi incontrerà altre sopravvissute, compagne di prigionia della figlia.
«Mi è sembrato che chi può fiorire una tomba conserva un’apparenza almeno di legame con i suoi morti. Non è così per me che penso disperatamente alla mia Vittoria e non ho neppure una tomba dove volgere i miei passi.»
Nel maggio 1971, accompagnato dalla figlia Giuliana, fa un viaggio a Israele. A circa 25 chilometri da Gerusalemme visitano la foresta dei martiri dove un cippo e una lapide riportano una semplice scritta: «Bosco in memoria di Vittoria Nenni Daubeuf 1915 – 1943».
«Da oggi in poi – annota Nenni nei suoi diari – ho un luogo in Israele dove venire o al quale pensare quando più forte mi assale l’angoscia per la morte crudele di mia figlia.»