Le critiche di Nenni al Piano Marshall

Le critiche di Nenni al Piano Marshall

Trascrizione del comizio di Pietro Nenni tenuto nel 1948 a Milano che apre la campagna elettorale per le elezioni politiche. Pur non essendo contrario agli aiuti americani Nenni rivendicava il diritto di criticarne alcuni aspetti. L’approvazione del Piano Marshall da parte del Congresso americano, il  2 aprile 1948, che avrebbe aiutato l’Europa nella ricostruzione con aiuti per oltre 14 miliardi in 4 anni, avviene durante l’aspra competizione elettorale del 1948 e ne condizionerà l’esito. Nel comizio Nenni critica il  Governo e la Democrazia Cristiana e fa un passaggio cruciale per spiegare che i Costituenti non si erano posti l’obiettivo semplicemente di indicare dei principi (come spesso oggi si sente dire) ma di indicare una strada da seguire per costruire una nuova Italia e questa strada doveva essere pavimentata con leggi applicative che avrebbero dovuto tradurre quelle indicazioni in soluzioni reali, concrete. A cominciare dagli articoli relativi al lavoro.

 

Le nostre critiche al Piano Marshall

-di PIETRO NENNI-

“Cittadini di Milano, lavoratrici e lavoratori, compagni!

E’ come deputato di Milano alla Costituente che sono oggi in mezzo a voi con l’onore particolare che mi è conferito dal Fronte Democratico Popolare di aprire la campagna elettorale, ma anche per assolvere al mio dovere di deputato rendendovi conto del mandato che m’era stato conferito il 2 giugno e delle condizioni nelle quali siamo giunti alla situazione presente.

Lasciatemi innanzi tutto esprimere la mia meraviglia per l’atteggiamento dei nostri avversari i quali hanno mescolato alla lotta elettorale testé aperta motivi e passioni che si poteva sperare fossero superate dai tempi. Abbiamo avuto la sorpresa di sentire il capo del governo democratico cristiano parlare non il linguaggio dell’uomo di governo, non il linguaggio di un capo partito, ma fare appello al fanatismo e all’odio, parlare come un capo vandeano o sanfedista che tenta di dividere irreparabilmente fra di loro gli italiani.

Abbiamo avuto la sorpresa di vedere la Chiesa che noi consideriamo estranea alle lotte politiche intervenire con le armi della religione laddove dovrebbero valere soltanto gli argomenti della ragione.

Io credo però che il tentativo di impostare le elezioni del 18 aprile su temi estranei alla vita politica del paese e di trasformare la contesa elettorale in guerra di religione, possa considerarsi interamente fallito. Non faremo le elezioni del 18 aprile per Cristo o contro Cristo e lasceremo la religione al di fuori delle nostre contese.

Inoltre, i discorsi di De Gasperi e di taluni altri ministri del governo democristiano ci hanno fatto chiedere se non stessimo per nominare i nostri rappresentanti al congresso americano, mentre invece si tratta di nominare i membri del primo Parlamento dell’Italia repubblicana. Senonché anche questo tentativo, il quale suona oltraggio alla coscienza nazionale, è stato ormai sventato. Non faremo le elezioni per l’America o contro l’America: faremo le elezioni per dare alla Repubblica Italiana una direzione repubblicana e per risolvere i problemi sociali del Paese. Così pure non faremo le elezioni per la Russia o contro la Russia, prendendo come base e fondamento della nostra lotta gli avvenimenti dell’Europa Centrale ed Orientale. Ho visto Milano tappezzata di manifesti a lutto per la democrazia in Cecoslovacchia. Vorrei essere sicuro che gli autori di quei manifesti non sono coloro che nel 1939 hanno acclamato Hitler quando invadeva la Cecoslovacchia o hanno benedetto gli eserciti hitleriani che entravano a Praga.

Comunque anche di fronte agli avvenimenti della Cecoslovacchia noi abbiamo detto come sempre una parola obiettiva e serena. Prima di tutto contestiamo che si possa misurare il destino del popolo italiano sul metro degli avvenimenti che si svolgono in paesi che si muovono su un diverso piano e che hanno altri problemi da risolvere. In secondo luogo, se si vuol fare un processo di lesa democrazia alla classe lavoratrice cecoslovacca perché si è costituito a Praga un governo il quale con la sola alleanza dei comunisti e dei socialdemocratici totalizza il 57 % dei voti, noi abbiamo il. Diritto di chiedere che razza di democrazia sia allora quella di cui ci delizia la democrazia cristiana la quale esercita il potere sulla base dei risultati elettorali del 2 giugno, quando essa ebbe il 35 % dei voti contro il 40% di voti socialisti e comunisti.

Manteniamo quindi lontano da noi codesti spettri, codesto linguaggio apocalittico, codeste previsioni da mille e non più mille.

Del resto, o compagni milanesi, non si dicevano forse le stesse cose alla vigilia del 2 giugno? Non doveva essere il 2 giugno un cataclisma? Invece ci fu il 2 giugno, e venne il 3 giugno che ci portò la Repubblica e noi abbiamo potuto allora presentarci al popolo senza una goccia di sangue nelle mani, come ci presenteremo il 19 aprile con una vittoria conseguita senza violenze e senza sopraffazioni. Lasciamo perciò alla destra la responsabilità del tentativo di esasperare la lotta elettorale. E lasciamo alla stampa cosi detta indipendente la triste responsabilità di riprendere nel 1948 il linguaggio e gli atteggiamenti che tenne nel 1921 e nel 1922, quando non aveva occhi che per vedere il pericolo rosso, allorché incombeva il pericolo nero, e quando non aveva orecchie per intendere il grido di dolore del proletariato sopraffatto nell’impari lotta contro le bande fasciste e lo Stato che di quelle bande era il complice e l’ausiliario.

Per parte mia sento il dovere di dare una risposta alle elettrici ed agli elettori ed al popolo tutto di Milano riunito in questa piazza nella più grande adunanza di popolo che io abbia mai visto, sui principali problemi interni e internazionali sui quali il 18 aprile dovremo pronunciarci.

Dichiaro senza esitazioni che della situazione attuale di crisi e di stasi sono responsabili in modo particolare la democrazia cristiana ed il suo capo on. De Gasperi.

L’anno 1947 avrebbe potuto essere un anno di concordia nazionale e popolare. Noi avremmo potuto lavorare alla elaborazione della Costituzione in un clima meno esasperato se non ci fosse stato il tentativo di allontanare dal governo i rappresentanti della classe lavoratrice italiana, i rappresentanti di nove milioni di elettrici e elettori repubblicani sui 12 milioni che il 2 giugno fondarono la Repubblica. Il 2 giugno presentò la caratteristica di due elezioni contemporanee i cui risultati non corrisposero. Il referendum dette 12 milioni di voti repubblicani contro 10 milioni, che non erano di monarchici, ma di moderati timorosi del salto nel buio. A formare i 12 milioni di voti repubblicani concorsero 4 milioni 700 mila voti socialisti, 4 milioni 300 mila voti comunisti, poco più di un milione e mezzo, due milioni al massimo di voti democratico cristiani. Senonché nello stesso giorno la democrazia cristiana nelle elezioni per la Costituente totalizzava 8 milioni di voti che le provenivano nella maggior parte dai moderati che avevano votato per la monarchia.

In tali condizioni la democrazia cristiana lungi dal sentirsi vincolata dalla disciplina repubblicana la quale imponeva l’unità politica delle forze popolari, subiva all’indomani del 2 giugno la spinta dell’Azione Cattolica e delle forze reazionarie interne e straniere verso posizioni di destra, e si faceva iniziatrice della divisione delle forze popolari e del defenestramento dei repubblicani dal governo della Repubblica.

Tutta la crisi del 1947 si impernia sullo spostamento della democrazia cristiana dalle posizioni iniziali di centro su posizioni di destra. Quando De Gasperi fa risalire la responsabilità della frattura del Tripartito al fatto che socialisti e comunisti avremmo fatto il doppio giuoco, oppure alla polemica sul piano Marshall, egli non dice la verità, potrei dire che egli mente se non temessi un richiamo all’ordine dell’amico on. Terracini, solerte e autorevole presidente del Comitato della Tregua.

Non è vero che in seno al governo ci sia stato un doppio giuoco dei socialisti e dei comunisti Tutte le volte che noi ci siamo trovati in contrasto con i ministri democristiani, non è stato perché reclamassimo l’applicazione del nostro programma ma perché reclamavamo l’applicazione del programma della democrazia cristiana.

Non è vero che la crisi italiana del 1947 possa essere messa in rapporto con la polemica mondiale sul piano Marshall. Il presidente del Consiglio tornò dall’America nel gennaio del 1947 fermamente deciso di allontanare dal governo i comunisti e, se fosse stato necessario, di allontanare i socialisti, ed allora neppure il Segretario di Stato Marshall pensava al piano Marshall.

Il tentativo di esclusione dei comunisti e dei socialisti dal governo repubblicano fu portato a termine nel maggio 1947, e nel maggio del 1947 né la discussione, né la polemica sul piano Marshall erano cominciate, giacché il discorso del Segretario di Stato che costituisce la premessa del Piano è del 5 maggio 1947 e le prime polemiche sono del luglio 1947 al momento della conferenza di Parigi. La verità è che l’esclusione dell’Estrema Sinistra dal governo fu determinata da ragioni di politica interna e sociale. Essa fa parte della strategia dei moderati dal 1848 in poi che si servono dei lavoratori, si avvalgono dell’avanguardia democratica contro il nemico di dentro o quello di fuori, pronti poi ad intendersi con l’avversario debellato per strappare la vittoria al popolo e concludere il processo rivoluzionario in termini di compromesso.

Io non nascosi nel gennaio e nel maggio che questa politica avrebbe avuto delle gravi conseguenze in quanto violava, se non il formalismo democratico, la legittimità democratica, violava i diritti della rivoluzione popolare non nel senso che Mussolini dava a questa espressione ma in quanto ricacciava dal governo che cumulava il potere esecutivo con quello legislativo, i principali rappresentanti della Resistenza antifascista, del moto partigiano e dei C.L.N.

Quante volte, compagni socialisti di Milano, ci siamo sentiti dire nel 1921 e nel 1922 che la responsabilità della impotenza dello Stato costituzionale andava addebitata al nostro intransigente rifiuto di collaborare al governo coi partiti più o meno democratici.

Ed ecco che quando la classe lavoratrice accetta e sollecita l’onere e l’onore di collaborare alla rinascita economica e politica del Paese, i moderati la respingono condannando all’impotenza lo Stato repubblicano. Fanno anzi di peggio, e considerano un ricatto il richiamo alla legittimità democratica e una provocazione l’opposizione.

Ora, nei mesi che vanno dal maggio fino alla fine del 1947, tutta la nostra critica di oppositori si è svolta su temi che costituiscono la piattaforma dell’attuale campagna. elettorale, l’impostazione che il Fronte dà alle elezioni del prossimo 18 aprile. Tre critiche principali noi abbiamo mosso al governo democristiano, sia quando esso era di colore unico, sia quando esso s’è tinto di roseo risucchiando sulle sue posizioni di destra i nostri secessionisti e il gruppo che si avvia ad autoliquidarsi dei repubblicani così detti storici.

Primo motivo di critica è stato la politica interna del governo. Noi abbiamo condotto una lotta vigorosa contro il monopolio clericale dello Stato che fa correre alla Repubblica Italiana un pericolo destinato col tempo a diventare non meno grave del pericolo che il fascismo fece correre allo Stato costituzionale negli anni che precedettero e seguirono il 1922. Noi abbiamo cercato invano di richiamare il governo e la sua mutevole ed esigua maggioranza alla valutazione obiettiva dell’interesse che a reggere il timone dello Stato in un periodo di esasperata crisi economica e sociale non fosse un solo partito, ma la coalizione di tutte le forze repubblicane e popolari.

La seconda delle nostre critiche è stata diretta contro il carattere unilaterale della politica estera del governo democristiano tendente ad inserire l’Italia nel blocco Occidentale trascurando e sacrificando ad un evidente fanatismo di parte tutto il settore dell’Europa Orientale, di fondamentale importanza per le nostre relazioni commerciali.

La terza critica è stata diretta contro la politica economica e finanziaria del binomio De Gasperi – Einaudi, al quale dobbiamo se il Paese ha rischiato e rischia di soccombere sotto il peso dell’inflazione monetaria e della deflazione del credito.

Specialmente in questo terreno sono evidenti le direttive reazionarie del governo. Attraverso l’inflazione monetaria esso tenta di fare ricadere sulle masse popolari il costo della guerra ed il costo della ricostruzione, mentre attraverso la restrizione del credito esso tenta di scardinare le provvidenze economiche e sociali imposte dalla vigilanza della C.G.I.L. per disciplinare lo sblocco dei licenziamenti, adeguare i salari ai prezzi attraverso il funzionamento della scala mobile, sostenere il livello di vita delle masse popolari anche nell’interesse della produzione e dei produttori.

Dobbiamo alla politica economica – e finanziaria – del governo nero il pericolo incombente di rottura dell’equilibrio monetario portato al limite estremo attraverso l’aumento della circolazione del 56% nel 1947 ed attraverso un aumento dello stato di previsione delle spese del 50%. Gli dobbiamo il peggioramento del cambio senza che con questo si siano avvantaggiate le nostre esportazioni, nonché la minaccia incombente sui consumi popolari rappresentata dalla svalutazione della moneta. Gli dobbiamo il declassamento delle categorie intermedie che hanno fatto le spese della sfrenata campagna ribassista condotta sul mercato agricolo e nella borsa. Ed infine ad esso risale la responsabilità della paurosa crisi di ristagno particolarmente grave nell’industria. Questi sono i fatti che accusano il governo. Queste sono le conseguenze della sua politica ed il 18 aprile noi non domanderemo conto all’on. De Gasperi delle sue convinzioni religiose, ma della sua politica interna, estera e finanziaria.

Nel corso di questi ultimi mesi una parte importante della nostra critica ha avuto come tema l’orientamento presente e futuro della nostra politica estera in base ai tre punti fondamentali che campeggiano l’evoluzione delle relazioni internazionali e che sono: la dottrina di Truman, il piano Marshall, l’iniziativa Bevin per la costituzione di un Blocco Occidentale non soltanto di carattere economico, ma anche di carattere politico – militare.

Questo insieme di fatti ha avuto una sua prima positiva conclusione in questi giorni nella Conferenza di Bruxelles dalla quale è sorto il primo nucleo del Blocco dell’Occidente, non soltanto sulla base del principio della difesa contro una eventuale aggressione, ma anche della difesa contro infiltrazioni di carattere politico. Sappiamo che cosa significa un tale linguaggio. Se mai si potrebbe essere sorpresi che a tenerlo nel 1948 siano coloro che nel 1936 inventarono la politica del non intervento in Spagna per sottrarsi all’obbligo morale e politico di aiutare un generoso popolo in armi per difendere il suo diritto alla indipendenza ed alla libertà.

Circa la dottrina Truman ogni polemica oggi può essere considerata chiusa. Con essa la dottrina di Monroe della egemonia degli Stati Uniti sul Continente americano si è estesa a tutto il inondo. La dimostrazione concreta di questa nuova politica egemonica americana ha la sua conseguenza nel fatto che ormai gli Stati Uniti considerano il Mediterraneo come una specie di frontiera avanzata della loro civiltà nei confronti della così detta barbarie asiatica e bolscevica, per cui si sono insediati in Turchia e in Grecia in condizioni denunciate quotidianamente dal sistematico massacro dell’opposizione greca.

Sul piano Marshall noi abbiamo assunto una posizione critica e non negativa che deriva da una valutazione di carattere politico e tecnico. Circa il valore tecnico del Piano è da osservare che il governo americano ha già operato una falcidia di più del 50% sulle richieste dei 16 Stati Europei che parteciparono alla Conferenza di Parigi del luglio 1947. Per quanto riguarda l’Italia il piano Marshall nella sua attuale e nota ultima edizione copre, o si impegna a coprire, il50 % del nostro fabbisogno in grano e prodotti petroliferi, un quinto del nostro fabbisogno di carbone, una parte insignificante del nostro fabbisogno di materiale ferroso. Il Piano non prevede niente per la emigrazione e, a questo proposito, non possiamo considerare soddisfacenti i risultati della Conferenza dell’emigrazione che si è tenuta recentemente a Roma. Il Piano non prevede nessun sbocco adeguato alle nostre esportazioni. E questa è certamente la sua più grave lacuna, in quanto è chiaro che se anche noi ricevessimo materie prime sufficienti per intensificare la produzione, saremmo condannati ad una rapida crisi ove non potessimo vendere, non potessimo cioè esportare i prodotti fabbricati. Il Piano non affronta e non risolve il problema della ricostruzione della flotta mercantile europea (ed in particolare di quella italiana) per cui si limita a prevedere il noleggio di 300 navi mercantili americane. Si nota poi nel Piano una tendenza assai pericolosa a sostituire all’invio di materie prime l’invio di prodotti lavorati o semilavorati, ciò che costituisce una grave minaccia per i lavoratori industriali del nostro Paese, i quali hanno bisogno di materie prime per poter dare pieno rendimento alla loro capacità di lavoro.

Ma uno degli aspetti più preoccupanti del piano Marshall è l’organizzazione di un controllo che prevede la creazione di una vasta burocrazia collaterale a quella del ministero degli Esteri americano e composta:

1) di un amministratore col rango di capo di amministrazione residente negli Stati Uniti assistito da un consiglio composto di esperti di interessi pubblici, cioè esperti della finanza e dell’industria non dipendente dallo Stato;

2) di un rappresentante degli Stati Uniti in Europa con l’incarico di partecipare ai lavori di tutte le organizzazioni internazionali create dai Paesi europei aderenti al Piano per l’attuazione del Piano stesso;

3) di una missione residente in ciascun Paese direttamente assistito.

1 controlli saranno attuati attraverso la stipulazione di accordi bilaterali fra gli Stati Uniti e ciascuno dei Paesi assistiti, accordi che prevedono fra l’altro:

a) approvazione da parte americana di qualsiasi progetto da attuarsi con i fondi e con parte sostanziale dei fondi americani;

b) stabilizzazione monetaria e pareggio del bilancio da parte dei Paesi assistiti;

c) attuazione di un sistema di comuni scambi fra i Paesi assistiti, riduzione di barriere doganali fra i Paesi assistiti, e fra questi e gli altri Paesi;

d) invio di informazioni al governo americano almeno ogni tre mesi su tutte le operazioni in base all’accordo e all’uso dei fondi, beni e servizi ottenuti dagli Stati Uniti.

Infine il Piano prevede l’obbligo che non siano impiegati questi fondi a fini diversi del Piano e non conformi agli interessi degli Stati Uniti.

Cittadini, questi controlli noi li abbiamo già conosciuti in un recente passato. Che cosa era la Commissione Alleata di Controllo di cui salutammo tutti con gioia lo scioglimento, operai, industriali, governo?

Posti quindi di fronte ad un insieme di disposizioni alquanto caotiche non si addice ad un Paese serio, che ha bisogno degli aiuti americani, prendere una posizione negativa, ma non gli si addice neppure il tono apologetico dei democristiani e dei secessionisti socialisti i quali hanno spinto la loro «cupidigia di servilismo» fino all’inverosimile. A noi si addice invece discutere ognuno dei paragrafi e delle clausole del Piano. Noi desideriamo di essere messi in condizioni di respingere ciò che è nocivo al nostro Paese e di accettare tutto ciò che corrisponde all’interesse comune della ricostruzione del nostro Paese. (applausi)

Per la neutralità italiana

Senonché la riserva più grave si deve fare sull’aspetto politico del piano Marshall. Negare il carattere politico del Piano è da stolti e da incoscienti. Gli americani si guardano bene dal farlo. Il signor Harriman, nel rapporto sul piano Marshall al congresso americano, afferma che l’interesse degli Stati Uniti in Europa non può essere misurato in termini economici ma è, anche, un interesse strategico e politico. D’altro canto il dibattito sul Piano in America è fondato su una equivalenza piuttosto che su un dilemma: o il congresso vota i fondi per l’attuazione del Piano oppure dovrà votare il raddoppio delle spese militari, onde mettere gli Stati Uniti in condizioni dì garantire per altre vie e con altri mezzi la sua sicurezza. Né noi siamo qui per erigerci a giudici dell’opinione americana. Solo l’America è giudice dei suoi reali interessi e noi ci guardiamo bene dall’intervenire coi nostri consigli e coi nostri ammonimenti negli affari di un Paese che ha raggiunto brillantemente la sua maturità. Neppure ci impancheremo a giudici del governo laburista inglese che ha preso l’iniziativa del blocco politico militare dell’Occidente, lasciando ai lavoratori inglesi di apprezzare la politica del loro governo. Ciò che come socialisti, come democratici, come italiani abbiamo il dovere di dire all’America, all’Inghilterra alla Francia è che non possiamo ricominciare una politica di potenza dalla quale siamo appena usciti con la distruzione fisica e con la distruzione morale del Paese.

Che cosa significherebbe per l’Italia aderire al blocco occidentale? Per l’Italia aderire al blocco occidentale significherebbe, nel caso deprecato della terza guerra, che questa si combatterebbe nella Valle Padana, si combatterebbe nelle nostre pianure, e ai piedi delle nostre montagne con la conseguente distruzione delle città che non saremmo in condizione di difendere. L’adesione al blocco significherebbe che i nostri porti diventerebbero depositi e bersaglio di bombe, anche di bombe atomiche. L’adesione al blocco occidentale comporterebbe per la nostra gioventù la condanna virtuale a servire da carne da macello per una guerra di interessi stranieri, come ciò è successo dal 1940 al 1945. Noi sappiamo cosa significa diventare l’antimurale della così detta civiltà. Lo siamo stati anche di recente e sappiamo come queste cose finiscono.

Quando nel 1937 il governo fascista firmò il patto anti-Komintern, primo passo verso l’alleanza con la Germania, quanti previdero l’inesorabile scadenza del 10 giugno 1940? Quanti immaginarono che i loro applausi si sarebbero convertiti nelle lacrime delle nostre mamme, delle nostre spose? Quanti giovani che allora gridavano «abbasso il Komintern, viva Hitler» intravidero quella che sarebbe stata la loro fine in Africa, in Grecia, sul Don, in una guerra nella quale non erano in gioco gli interessi del loro Paese ma soltanto quelli dell’imperialismo tedesco? Memori della recente lezione e dei moniti invano lanciati al Paese, noi diciamo NO ad ogni politica di potenza.

Ed abbiamo, per farlo, un’altra ragione più positiva. Se ci volgiamo indietro a considerare lo sviluppo della nazione e se ci chiediamo perché l’Italia non ha camminato come doveva e poteva sulle vie del progresso economico e sociale, siamo costretti di rispondere che è perché fin dal 1882 con la Triplice Alleanza e nel 1937 con l’Asse siamo stati distolti dal nostro destino e impegnati in una politica di potenza superiore alle nostre forze. Facemmo così una serie di guerre in Africa e in Europa, costruendo vie imperiali sul Litorale africano o in Abissinia, quando in una metà dell’Italia mancavano le vie normali degli scambi e dei traffici. Avemmo un’industria di guerra prima dell’industria di pace; un esercito prima delle scuole; il luccichio delle uniformi gallonate prima della pubblica igiene. Prendemmo, secondo il motto di Carducci, delle solenni sbornie acquatiche e lasciammo insoluta la questione sociale dominata dal tragico squilibrio fra l’opulenza e la miseria.

Ora il Fronte assume davanti al popolo l’impegno solenne ed irrevocabile di risolvere la questione sociale prima di pensare ad una nuova politica estera di potenza. E la garanzia che il Fronte al governo farà una politica di pace non sta nella nostra parola, non nei nostri sentimenti che vi sono noti, o milanesi, ma nel programma del Fronte che non può essere né affrontato né attuato se nei prossimi 20-25 anni il Paese non abbandona ogni illusione o fanatismo di potenza, per concentrare tutte le nostre energie a risolvere i problemi interni. (applausi)

Qual è il programma del Fronte?

Noi lo abbiamo riassunto in tre punti fondamentali.

Consigli di gestione e nazionalizzazione dei grandi complessi industriali del Paese: noi consideriamo i consigli di gestione come un organismo di controllo della produzione, un organismo attraverso il quale la democrazia si realizza nel campo economico e la dignità del lavoratore finisce di essere una parola per diventare una realtà, e si traduce in uno stimolo per produrre di più. Infatti hanno ragione coloro che dicono che il vero problema italiano è quello di ritrovare la passione del lavoro e lo stimolo della produzione. Sennonché! la classe lavoratrice ha anch’essa le sue esigenze, prima di tutte quella di vedere riconosciuti i suoi diritti civili e politici. Dopo di che non un lavoratore si sottrarrà ad un supplemento di fatica e di sacrificio quando sia nell’interesse della collettività e non della privata speculazione.

La seconda rivendicazione del Fronte è la riforma agraria, della quale si parla in Italia da 70-80 anni. Studi: sono stati accumulati i più pregevoli ma si è fatto poco. Ora senza la riforma agraria non si risolvono le due piaghe purulente della nostra società quella del bracciantato nella Valle Padana, nelle Puglie e in Sicilia, quella delle plebi rurali nel Mezzogiorno e nelle Isole. Per riforma agraria noi intendiamo la protezione della piccola e media proprietà rurale e la espropriazione dei latifondi e della grande proprietà, la terra a chi la lavora in gestione diretta o cooperativa, secondo le esigenze della produzione.

La terza delle nostre fondamentali rivendicazioni è la soluzione di quella che da oltre mezzo secolo è definita la questione meridionale e cioè la valorizzazione di tutte le energie economiche delle province del Sud. Né dite, milanesi, che il problema interessa soltanto le province meridionali. È invece il nostro problema, giacché finché noi avremo dei contadini che si fanno un vestito quando sposano e poi lo conservano nella naftalina per indossarlo sul letto di morte e per il resto del tempo loro e le loro donne vanno vestiti di stracci; finché avremo bambini che non conoscono l’uso delle scarpe se non nelle occasioni solenni; finché avremo contadini che lavorano la terra con aratri dì legno, come possono lavorare e produrre le fabbriche, come possono svilupparsi i commerci? Soltanto alzando il tenore di vita delle masse più arretrate si risolvono i problemi della produzione e dell’impiego della mano d’opera e si rifà l’Italia, come proponeva Filippo Turati or è più di un quarto di secolo. Il Fronte Democratico Popolare vuole rifare l’Italia suscitando tutte le energie e tutti i concorsi. Né per questo avrà bisogno di chiedere leggi o poteri eccezionali. Basta la Costituzione che abbiamo votato. Il titolo terzo, che concerne i rapporti economici, non ha senso se non significa impegno della Repubblica a risolvere i problemi dei quali vi ho parlato. Con l’art. 43 il principio delle nazionalizzazioni è già iscritto nella Costituzione. L’art. 44 non può essere considerato che come l’impegno di attuare la riforma agraria, così come l’art. 46 contiene in nuce il principio dei consigli di gestione e di cascina. Noi socialisti abbiamo collaborato alla elaborazione della Costituzione senza ottenere sempre tutto ciò che ci pareva conforme all’interesse dei lavoratori. Ma, quale essa è, costituisce per tutta la democrazia italiana l’impegno di far sì che ognuno dei principi della Costituzione si trasformi in leggi organiche e nel costume così che leggendo la Costituzione i nostri figlioli possono dire: ciò che la Repubblica ci ha promesso la Repubblica lo ha mantenuto.

Solo nel caso in cui ciò non si avverasse io penso che la Repubblica sarebbe veramente in pericolo: ove essa cioè non mantenesse le sue promesse. Ma se il prossimo governo farà il suo dovere, se attuerà un programma di rivalorizzazione di tutte le nostre energie economiche, allora la Repubblica non ha nulla da temere né dai nostalgici della monarchia, né dai nostalgici del manganello, e può trattare costoro come rottami che ingombrano il cammino della democrazia senza arrestarne il cammino.

Ed ecco che io mi avvio alla conclusione. Non prima però di dire una parola franca sulla posizione del Partito Socialista nel Fronte. Molte critiche sono state rivolte al Partito Socialista perché ha preso l’iniziativa del Fronte e si è poi buttato con tutte le sue energie nella lotta del Fronte. Si è cercato di ritorcere contro di noi la tradizione socialista. Si è fatto e si fa ogni giorno l’apologia dei nostri secessionisti. Ciò mi fa tornare alla memoria un motto sarcastico di Filippo Turati agli avversari che gli accordavano il favore non ambito dei loro encomi. «Come gobbo, diceva Turati, voi mi trovate piuttosto ben fatto». Oggi la borghesia reazionaria trova che i miei ex compagni ed amici Saragat, Ivan Matteo sono dei gobbi fatti bene. lo sono fatto male anche come gobbo, e non me ne dolgo. È stupido però tentare di far credere che un grande partito, ricco di una grande tradizione come il Partito Socialista, sia arrivato alla sua attuale politica per non so quale mio sortilegio. Ora io desidero dire qui a Milano, fra i fedeli delle nostre vecchie battaglie, che non il Partito Socialista è nenniano, ma io sono socialista secondo la più coerente tradizione del socialismo italiano, che fu operaista fino al 1890, rivoluzionaria dal 1905 al 1915, massimalista dalla guerra del 1915 fino alla lotta contro il fascismo. Noi non siamo oggi che i continuatori della tradizione rivoluzionaria del Socialismo italiano in quanto attraverso l’alleanza col Partito Comunista realizziamo l’unità d’azione e di lotta delle classi lavoratrici incrinata sul piano delle ideologie.

Nella tradizione socialista anche il pensiero di Filippo Turati ha una grande importanza . Tanto il massimalismo fu ricco dell’intuito di classe quanto esso fu povero di intuito politico. E due volte nella storia d’Italia, nella storia del Socialismo, l’interprete migliore degli interessi politici del proletariato fu Filippo Turati. Nel 1889 quando prese qui a Milano l’iniziativa del Blocco Popolare che sconfisse i clerico-moderati di allora, come il Fronte sconfiggerà i clerico-moderati dì oggi. E quando dopo l’avvento del fascismo vagheggiò la costituzione di una Lega della Libertà che ricostruisse le disperse forze dell’antifascismo e consentisse ai socialisti ed alla classe lavoratrice di riprendere la lotta. Ora su questo punto la nostra politica coincide con i motivi che suggerirono a Turati nel 1900 l’iniziativa del blocco, come molte delle critiche rivolte a noi sono la eco di quelle che erano di moda alla fine dell’Ottocento. Se voi aveste il tempo di sfogliare la collezione del «Corriere della Sera» o della «Perseveranza» del 1888 o del 1900 voi vedreste che dicevano di Felice Cavallotti che egli era la longa manus di Filippo Turati, come dicono di me che sono la longa manus o l’agente di Togliatti, che è nella geografia politica odierna ciò che Turati era nel 1889. Perciò, senza volere qui accaparrare la memoria di un uomo, pure m’è caro pensare che se Filippo Turati potesse affacciarsi alla finestra che dava sulle guglie del Duomo nel popolo riunito in questa piazza che tanto amava, egli vedrebbe la democrazia e il socialismo in marcia verso la vittoria.

Né so se egli indulgerebbe alla illusione della terza forza, che per avere un senso dovrebbe essere equidistante dalla destra e dalla sinistra, mentre i Saragat e i Pacciardi sono ormai una cosa sola col blocco moderato così che votare per loro equivarrebbe a dare il proprio voto a De Gasperi.

Dietro il simbolo di Garibaldi non ci sono quindi sotterfugi o tentativi di mimetizzazione. Il Partito Socialista è nel Fronte con la sua storia di oltre 60 anni che rappresenta la somma dei sacrifici che la classe lavoratrice italiana ha fatto per risolvere la questione della democrazia e la questione sociale. Il Partito Comunista c’è col diritto di cittadinanza democratica che esso si é conquistato col sangue dei migliori combattenti della lotta antifascista e della guerra partigiana.

Sono con noi a migliaia di «pallidi intellettuali»

E sono con noi, non dispiaccia all’Em.mo Arcivescovo di Milano, centinaia di migliaia di donne e di uomini cattolici, i quali interpretano il cattolicesimo come la legge di Cristo e sanno di poter preservare la loro fede da ogni collusione pure alleandosi a noi per una politica di progresso sociale e di rinnovamento politico.

Tutti insieme ci ricolleghiamo alla tradizione Garibaldina perché rappresentiamo le stesse forze di progresso che un secolo fa si unirono dietro Garibaldi.

Milanesi, voi celebrerete fra qualche giorno il centenario delle Cinque Giornale. Ora nel breve volgere di quelle Cinque Giornate gloriose è il dramma che poi ha dominato tutta la storia d’Italia. Il conflitto che oppose Cattaneo al conte Casati, i rivoluzionari ai moderati, la soluzione regia e moderata che si tentò di dare ad una insurrezione repubblicana e rivoluzionaria e che precipitò il fallimento del moto popolare, è il conflitto che domina il corso del Risorgimento e che oggi si riproduce nella lotta del Fronte contro la manomissione clericale e moderata degli ideali della cospirazione antifascista e partigiana. Ricordatevi Milano il 25 aprile così simile alla Milano delle Cinque Giornate. Ricordatevi i fiori che piovevano dai balconi dei palazzi borghesi sui partigiani che tornavano dai monti e sugli operai che tornavano dall’aver difeso le fabbriche. Ricordatevi il fremito di vita nuova che percorse la penisola da un capo all’altro, quando qui fu posto fine all’avventura fascista. Poi, poco a poco, mese dopo mese, lo scetticismo ha sostituito l’entusiasmo, gli applausi sono venuti meno, sono usciti dai loro nascondigli gli autori della disfatta, tenuti per mano dalla democrazia cristiana.

I partigiani sono stati ricacciati nell’ombra, lo Stato è stato riconsegnato a quelli di prima. La Repubblica è stata umiliata alla misura della monarchia. Avevamo lottato per lo Stato popolare ed abbiamo lo Stato di polizia. Avevamo conteso al tedesco il diritto di essere padrone in casa nostra e ci stanno vendendo agli americani Contro questo è insorto e insorge il Fronte, contro il tradimento sfacciato degli ideali di democrazia e di socialismo. E’ una lotta difficile quella che abbiamo scatenato. Turati soleva dire: «La salita è dura».

Sì compagni, sì cittadini, la salita è dura. Ma è proprio perché la salita è dura che mortificando ogni orgoglio di partito abbiamo creato la grande unità del popolo lavoratore nel Fronte. È proprio perché la salita è dura che ci siamo legati in cordata, la cordata degli uomini di buona volontà verso le cime dell’ideale e per il rinnovamento sociale ed economico del Paese”.

* Quello che abbiamo riproposto è il discorso di apertura della campagna elettorale del 1948 tenuto a Milano da Pietro Nenni (Archivio della Fondazione). Ovviamente il discorso ruota intorno alle questioni politiche: il “tradimento” da parte della Dc dell’unità nazionale avvenuto dopo il viaggio negli Usa di Alcide De Gasperi, la mancanza di uno spirito riformistico nell’azione di governo, le ingerenze della Chiesa e americane, la polemica con gli “scissionisti” cioè Giuseppe Saragat e gli ex compagni che avevano abbandonato il Psi a Palazzo Barberini, l’attuazione dei principi costituzionali e, in ampia misura, la scelta della confluenza nel Fronte Popolare che aveva suscitato più di una perplessità e che in termini elettorali al Psi non costò poco. Ma buona parte del discorso è dedicato al Piano Marshall (European Recovery Plan), annunciato il 5 giugno del 1947, approvato dal Congresso americano il 2 aprile del 1948 e che avrebbe “accompagnato” la ricostruzione europea aiuti per 14 miliardi di dollari in 4 anni. Pietro Nenni non lo rifiutava ma rivendicava il diritto di criticarne gli aspetti a suo modo di vedere discutibili. Il testo è emblematico ed esplicativo dello spirito di quei tempi. Ma nella parte relativa alla Costituzione spiega anche che i Costituenti (o almeno una parte) non si erano posti l’obiettivo semplicemente di indicare dei principi (come spesso oggi si sente dire) ma di indicare una strada da seguire per costruire una nuova Italia e questa strada doveva essere pavimentata con leggi applicative che avrebbero dovuto tradurre quelle indicazioni in soluzioni reali, concrete. A cominciare dagli articoli relativi al lavoro. Da quest’ultimo punto di vista, il discorso può ancora rivestire una certa attualità a quasi settant’anni di distanza.