02 Ott Diseguaglianze e crescita economica
-di FRANCO CAVALLARI-
“Per il momento la Vs abbondanza
supplisca alla loro indigenza
e in futuro la loro abbondanza
potrà supplire alla Vs indigenza”
S. Paolo
L’influenza negativa sulla crescita delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza è stata presa in esame dalla dottrina economica da quasi un secolo (1). Ma, oltre all’aspetto etico, il riconoscimento della valenza economica di segno negativo sullo sviluppo delle forti disparità di reddito ha assunto una certa autorevolezza soltanto da una quindicina d’anni, o poco più. Vale a dire da quando una rigorosa analisi storica ed economica dei Premi Nobel per l’economia J.E. Stiglitz prima e P. Krugman successivamente, nonché di altri eminenti studiosi, tra cui A.B. Atkinson, E. Saez e Th. Piketty, ha identificato nel fenomeno un fattore di freno alla crescita economica, dimostrando inequivocabilmente il trade off esistente tra la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e lo sviluppo economico(2).
In parallelo a questa tendenza, molti studiosi(3) hanno rilevato che nella storia esiste un andamento sincronico, una specie di danza in cui diseguaglianza economica e radicalizzazione politica si muovono all’unisono nell’alveo di grandi cicli storici, di cui il crescente populismo dei nostri giorni rappresenterebbe una fase; peraltro, sovrapponendosi ed intrecciandosi dal punto di vista economico con gli andamenti periodici della “curva di Kuznets(4).
La grande crisi economica del 2008 originata oltre Atlantico dallo scoppio della bolla immobiliare e dall’inquinamento finanziario, intervenuti nel contesto di grandi diseguaglianze degli USA, ha trovato nel nostro Paese, come in molti altri, un terreno di coltura reso molto fertile dalle vulnerabilità pregresse; e tra queste, la divaricazione nella distribuzione del reddito, processo devastante per la classe media e per i ceti meno abbienti, che ha svolto (e svolge ) un ruolo di primaria importanza in veste di freno dello sviluppo economico.
Molte obiezioni sono state sollevate nei confronti delle teorie prima citate che postulano uno stretto legame tra il rallentamento della crescita e le disparità di reddito. L’establishment economico mondiale ed i cultori del libero mercato, rifacendosi alle tesi del neo-classicismo e della teoria marginalista, sostengono che le differenze nei livelli di reddito rappresenterebbero il giusto corrispettivo del contributo di ciascuno allo sviluppo. Secondo questo punto di vista, l’applicazione di incisive politiche di redistribuzione sarebbe in grado di far collassare gli investimenti, con gravissime ripercussioni negative sull’andamento dell’economia. Per altri versi, essi sostengono che l’arricchimento della classe imprenditoriale generato dalla pura applicazione delle leggi del mercato gioverebbe anche alle classi meno abbienti, alle quali defluirebbe attraverso il “trickle down” (o sgocciolamento) una parte non trascurabile della maggiore ricchezza prodotta. Senza entrare nel vivo degli argomenti che confutano o sorreggono la tesi in questione, basterà citare l’evidenza storica ricordata da P. Krugman secondo cui nessuna delle conseguenze disastrose sugli investimenti paventate si è manifestata negli USA durante i decenni successivi al varo del New Deal; ben al contrario, “la Grande Compressione (delle retribuzioni) riusci ad equiparare i redditi per circa 30 anni; e l’era dell’eguaglianza fu anche un periodo di prosperità senza precedenti che non siamo mai più riusciti a ricreare”(5).
Al di là di questa autorevole osservazione di carattere storico, corroborata da tutta una serie di analisi storiche ed economiche degli autori citati in precedenza, possiamo in linea generale considerare come acquisito alla dottrina economica contemporanea il principio secondo cui l’applicazione di incisive politiche redistributive, specialmente in contesti socio-economici affetti da gravi squilibri strutturali, costituisce un fattore positivo ai fini della crescita. Come sostiene Stiglitz, “il riequilibrio nella distribuzione del reddito, alimentando la domanda globale, rappresenta uno dei presupposti indispensabili per sostenere gli investimenti; per aumentare i quali l’economia moderna dispone, sia di strumenti di intervento sconosciuti in passato, sia dell’esperienza necessaria per dosare opportunamente la loro azione”.
Alcuni economisti hanno osservato che tra gli squilibri nella distribuzione del reddito e la stagnazione esisterebbe un certo effetto di “causazione circolare”, nel senso che i due fenomeni si influenzerebbero vicendevolmente; tuttavia, recenti ricerche statistiche hanno dimostrato che l’aumento del primo anticipa di 4-8 mesi il secondo, e può quindi essere considerato primigenio. Analogamente, con riferimento alla stabilità e all’insieme delle condizioni che hanno condotto alla crisi del 2008, si va formando un consenso sempre più ampio in merito alla circostanza che la diseguaglianza comporta un fattore di instabilità; il quale, a sua volta, produce un ulteriore incremento delle disparità reddituali(6).
In materia di squilibri nella distribuzione dei redditi. l’OECD ha elaborato, per il periodo 1980-2010, una graduatoria dei Paesi membri relativa all’evoluzione degli indici di concentrazione di Gini afferenti la distribuzione del reddito disponibile. Al vertice figura un gruppo di Paesi in via di sviluppo ad “altissima diseguaglianza”, quali il Cile (indice Gini 50%), il Messico (48%) e la Turchia (42%); in seconda posizione viene un gruppo composto da Paesi industrializzati definibili ad “alta diseguaglianza”, in cui spiccano gli USA (37%)(7) la Gran Bretagna e l’Italia (35%), seguiti da Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Canadà, tutti con un indice intorno al 32%. Appartengono a un terzo gruppo, che potremmo definire a “diseguaglianza media” (indice Gini intorno al 29%), la maggior parte dei Paesi europei e la Corea, mentre chiudono la classifica i Paesi scandinavi, l’Austria e il Belgio, tutti a “diseguaglianza bassa”, con un indice vicino al 25%.
Per quanto concerne l’evoluzione nel tempo dell’indice dei vari Paesi, le seguenti tendenze completano taluni aspetti del panorama descritto, segnalando:
a) Un aumento continuo dell’indice USA ( 30% nel 1980, 35% nel 2000, 38% nel 2010)
b) un balzo dell’indice italiano (dal 29% del 1990 al 35% dal 1995 al 2010);
c) un consistente incremento dell’indice tedesco, (dal 26% del 2000 al 31% del 2005/2010) e di quello dei Paesi scandinavi (dal 22% nel 1990, al 26% nel periodo dal 2000 al 2010).
Per il periodo che segue il 2010, l’OECD non ha ancora elaborato indici armonizzati, ma le statistiche nazionali segnalano ovunque un continuo aumento delle diseguaglianze.
Come si vede, nel ranking delle disparità di reddito dei Paesi industrializzati, l’indice più elevato, tuttora in forte aumento, risulta quello degli Stati Uniti, ove è compresente, dopo il 2009, un tasso di crescita economica abbastanza consistente. Questa anomalia rispetto al “trade off” tra diseguaglianze e crescita di cui si è detto, si spiega con alcune particolarità dell’economia statunitense. In realta, l’enorme operazione di “riflazione” monetaria che dopo la crisi del 2008 ha rimesso in movimento il notevole potenziale industriale del Paese, in buona parte sottoutilizzato, è avvenuta in assenza di grandi scossoni inflazionistici in ragione del “vantaggio esorbitante” di cui gode il dollaro quale maggiore strumento di riserva valutaria internazionale, accettato, peraltro, come mezzo di pagamento interno in moltissimi Paesi.
Va anche sottolineato che la finanza degli USA, aldilà della regolamentazione esistente, opera di fatto in regime di grande deregolamentazione bancaria e finanziaria(8) la quale, pur favorendo il rilancio della crescita nel breve, sottende una grande fragilità rispetto alla possibilità di future crisi finanziarie, come ammoniscono da tempo gli economisti della New York University facenti capo a Nouriel Roubini(9).
Molto diverso è il caso dei Paesi dell’Unione Europea ove il quadro delle diseguaglianze, meno grave di quello USA ma comunque non trascurabile, si coniuga con particolarità concernenti la crescita economica notevolmente differenti rispetto agli Stati Uniti.
Nei Paesi europei lo sviluppo del reddito è stato nel recente passato sensibilmente più lento rispetto alle loro potenzialità, (anche se nel 2016-17 la crescita economica nell’Europa a 27 non risulta molto distante da quella degli USA), frenato, oltreché dagli squilibri nella distribuzione del reddito, anche, e soprattutto, dalle stringenti regole di austerità finanziaria introdotte per alcuni Paesi come l’Italia, vale a dire dal “regime di austerità” nel 2010-11, poi consolidato dal “fiscal compact” sottoscritto dal nostro Paese nel 2014.
Al riguardo, non è irrilevante il fatto che il Paese economicamente egemone dell’Unione, la Germania, abbia tratto indubbio vantaggio dalle difficoltà produttive indotte dalle restrizioni di bilancio in vigore nei Paesi più indebitati, e, comunque, in quelli votati allo sviluppo delle esportazioni, ma comunque più deboli dal punto di vista strutturale, come l’Italia. Espandendo notevolmente le proprie esportazioni nel resto del mondo grazie alle difficoltà dei concorrenti europei, la Repubblica Federale Tedesca ha accumulato nelle proprie riserve il controvalore valutario degli ingenti surplus della sua bilancia dei pagamenti.
Dal nostro punto di vista, ciò costituisce un ulteriore fattore di freno alla domanda globale in quanto i surplus valutari, tesaurizzati nelle riserve e non “riciclati” nell’economia, come sarebbe invece prescritto da una delle regole del “regime di austerità” contenute in “six-pack”, costituiscono un ulteriore fattore di freno per gli altri Paesi membri. In questo ambito, l’Italia trova una collocazione particolarmente sfavorevole: la lunga recessione è stata accentuata da debolezze strutturali del sistema produttivo, in forte ritardo nell’adeguamento al progresso tecnologico e alla globalizzazione; ma la sua stagnazione, più profonda e duratura rispetto al resto dell’Europa, e la sua ripresa più stentata sono in gran parte ascrivibili ad altre cause fondamentali.
La prima e più importante consiste nell’elevato peso del suo insostenibile servizio del debito e nell’applicazione delle conseguenti restrizioni di bilancio approvate dall’Unione dopo la crisi del 2008; la seconda concerne appunto l’oggetto del presente articolo, vale a dire la divaricazione particolarmente accentuata nella distribuzione dei redditi che ha mortificato oltremisura la classe media e ridotto in povertà vasti strati della popolazione meno abbiente, alimentando così il cosiddetto “populismo”, devastante fattore di disgregazione sociale che imperversa in Italia ed in Europa da quasi un decennio.
Per quanto riguarda il primo dei due fattori evocati, va evidenziato che il principio di realtà, sul quale concordano la maggior parte degli economisti, deve farci considerare il nostro debito pubblico “non riassorbibile” entro i limiti prescritti con strumenti ordinari di livello nazionale; il costo di una simile politica richiederebbe almeno 20 anni di restrizioni di bilancio di dimensioni inimmaginabili, che comporterebbero, in termini di crescita, una devastante stagnazione economica e in termini sociali un pauroso arretramento del benessere collettivo(10).
Insieme a quello di altri Paesi dell’Unione, l’elevato debito pubblico italiano rappresenta, insieme alla revisione di alcune clausole inapplicabili del “fiscal compact” una delle quattro o cinque grandi questioni non risolvibili dai singoli Stati, che attendono di essere prese in considerazione dalle istituzioni europee. Su questo punto, esistono proposte non prive di validità tecnica e di agibilità politica di prospettiva, che consentirebbero una ristrutturazione parziale della quota del debito non sostenibile dai Paesi come l’Italia, realizzando una “parziale europeizzazione compartecipativa delle garanzie”; misure in grado di minimizzare il servizio del debito anche nell’eventualità di un aumento ciclico dei tassi di interesse. Questa, ad esempio, potrebbe essere realizzata attraverso diversi meccanismi, tra cui gli eurobonds, il varo dei quali non sconvolgerebbe la struttura del trattato di Maastricht e non implicherebbe irrealistici espliciti trasferimenti di risorse dagli altri Paesi dell’Unione.
Ma i tempi per soluzioni del genere a livello comunitario non sono ancora politicamente maturi e il rifiorire di quel minimo di coesione europea necessario per realizzare questo processo dovrà attendere tempi migliori, che presumibilmente seguiranno il picco dell’ondata antieuropea raggiunto alla vigilia delle elezioni in Francia. E’ sperabile che la diminuzione in atto delle tensioni populiste prosegua e completi il suo corso, anche dopo l’esito non proprio incoraggiante delle recenti elezioni in Germania (ove la destra sovranista con venature neonaziste per la prima volta ha eletto i suoi rappresentanti -circa una novantina- in Parlamento ); ed anche oltre la prossima consultazione elettorale italiana ed il suo esito, che, da questo punto di vista, si presenta ancora incerto e non privo pericolose incognite.
Se saranno superati gli ostacoli eretti dall’antieuropeismo, è pensabile che i popoli dell’Unione, vaccinati dal timore delle conseguenze derivanti dalla dissoluzione comunitaria paventata in questi ultimo tempi, comprendano la stoltezza politica ed economica di affidare la soluzione dei loro problemi alle “svalutazioni monetarie” e al “protezionismo competitivo“. Forse allora le economie più forti, liberate dalla paura di perdere parte del loro benessere, preferiranno godere dei benefici di appartenenza alla dimensione continentale di un’Unione più equilibrata, evitando di fluttuare singolarmente in un mondo globalizzato caratterizzato da un asseto geopolitico composto di Stati di enormi dimensioni; e accetteranno di condividere parzialmente con i Paesi in difficoltà la soluzione di alcuni tra i più scottanti problemi della nostra epoca.
Prima che nel medio periodo ciò possa realizzarsi, il rilancio della crescita del nostro Paese nel prossimo futuro dovrà avvenire con soluzioni di livello nazionale; che, invero, non sono poi molte, e l’unica di un certo rilievo è quella inerente l’altro fattore di freno citato in precedenza: la riduzione della notevole disparità nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Un’azione incisiva su questo terreno, contribuendo peraltro a restaurare la fiducia nel futuro e il senso di appartenenza al Paese degli strati sociali più colpiti dalla lunghissima crisi, sarebbe in grado di dare un contributo sostanziale al rilancio degli investimenti, pubblici e privati, e a tonificare la domanda interna, azioni indispensabili ai fini della ripresa del reddito e dell’occupazione.
La Legge di Bilancio per il 2018 potrebbe essere l’occasione per orientare l’azione del Governo lungo una linea di politica economica volta ad attenuare il clima di scoraggiamento del Paese, affrontando questo specifico fattore di stagnazione nell’ambito di un insieme coordinato di interventi, che, a puro titolo di esempio, potremmo così riassumere:
a) Rielaborare la politica fiscale nel contesto di una più generale politica dei redditi, funzionali entrambe alla riduzione delle grandi diseguaglianze nella distribuzione dei guadagni, in stretto dialogo con i sindacati, partners naturali di ogni operazione di perequazione reddituale; si tratterebbe di una riforma volta a spostare l’accento dell’incidenza fiscale dalla produzione del reddito alla rendita improduttiva e a modificare la progressività a vantaggio della classe media e della popolazione meno abbiente; anche l’applicazione di tetti ragionevoli alle retribuzioni pubbliche e private potrebbe contribuire allo scopo;
b) sostenere in modo deciso il rilancio degli investimenti pubblici e privati, unico motore in grado di creare posti di lavoro remunerativi atti a migliorare la situazione dell’occupazione, specie di quella giovanile;
c) intervenire sul “cuneo contributivo” con adeguate risorse per abbassare il costo del lavoro per unità di prodotto che, oltre a facilitare un aumento dell’occupazione giovanile, consentirebbe un aumento controllato delle retribuzioni attraverso la contrattazione collettiva (ed anche diretta);
d) emanare una incisiva normativa antitrust, che renda più fluida l’economia ed impedisca la formazione di coaguli corporativi, ostacolando la traslazione degli oneri, fiscali e di altra natura, dagli oligopoli e dalle corporazioni verso le classi sociali più deboli.
e) procedere rapidamente alla dismissione di una quota significativa delle partecipazioni pubbliche, al fine di alleggerire i conti pubblici e migliorare i rapporti con le istituzioni europee, sempre interessate al miglioramento dei disavanzi della finanza pubblica italiana.
Parliamo di interventi che non pretendono di sanare le molteplici carenze economico-sociali del nostro Paese, quali ad es. l’ampliarsi delle differenze tra i punti di partenza delle varie classi, il blocco dell’ascensore sociale, la difesa dei beni comuni ecc., ma che intendono semplicemente rendere più agevole la ripresa della crescita economica, prodromica ad uno sviluppo equilibrato del Paese. E’ molto probabile che un’agenda di questo tipo non provocherebbe reazioni particolarmente vivaci da parte della componente di destra del Governo, essendo orientata, nella difficile situazione italiana, a realizzare condizioni atte ad allentare la catena della stagnazione economica e a sottrarre spazio politico alla propaganda del populismo sovranista. Una politica economica di rilancio produttivo nel breve periodo come quella sommariamente descritta presuppone, pur nel clima elettorale attuale, grande senso di responsabilità da parte delle forze politiche, chiamate ad affrontare anche il reperimento delle risorse necessarie allo scopo, senza tuttavia incidere sui redditi relati alle capacità produttive dell’economia.
Per quel che riguarda il reperimento delle risorse, va considerato che la tassazione sulle rendite, incide pochissimo sulla produzione del reddito, ed è probabile ed auspicabile che l’opinione pubblica ed anche i ceti produttivi non reagiscano negativamente a misure di questa natura. Ad esempio, una leggera tassazione “una tantum” sui patrimoni finanziari più elevati avrebbe un’incisività economica e sociale molto limitata e non sarebbe tale da suscitare il timore di “desertificazione dell’economia” paventato da alcuni economisti, come ad es. Francesco Forte, in caso di imposizioni patrimoniali. Pur non avendo una valenza sociale diretta in termini di riduzione delle diseguaglianze, una misura del genere potrebbe svolgere un ruolo essenziale nel rilancio della crescita, fornendo al Governo risorse preziose ai fini degli investimenti.
A puro titolo di ipotesi, un’imposta straordinaria del 2 o 3% sui patrimoni finanziari (azioni, obbligazioni, depositi bancari, ecc.) superiori ai 500 mila euro, assommanti secondo dati Bankitalia a circa 1100 Mld, darebbe un gettito abbastanza consistente. Queste risorse, intorno ai 25-30 miliardi di euro, potrebbero essere impiegate fruttuosamente, oltreché nell’incentivazione degli investimenti produttivi e nell’attenuazione del cuneo fiscale e contributivo, anche nella lotta alla povertà, nell’innovazione della tecnologia e nel miglioramento dell’istruzione universitaria, tutti elementi in grado di incidere positivamente sullo sviluppo economico e sulla coesione sociale.